Nettle distingue tre tipi diversi di felicità:
-felicità di primo livello: si ha quando le persone, nonostante sappiano di non provare gioia in ogni momento della loro giornata, si rendono conto che i momenti in cui hanno provato emozioni positive sono maggiori rispetto a quando hanno provato emozioni negative;
-felicità di secondo livello: viene indicata anche con le parole “appagamento” e “soddisfazione”; non si presenta solo come un semplice bilancio tra emozioni positive e negative, come per quella di primo livello, ma coinvolge anche i processi cognitivi, poiché è in grado di fare paragoni con altri possibili risultati;
-felicità di terzo livello: rappresenta un senso di felicità più ampio, che coincide con il vivere bene e con il realizzare e sviluppare tutte le proprie potenzialità.
Quindi, se prendiamo in considerazione la felicità di terzo livello, vediamo come essa non sia qualcosa “per pochi”, solo per chi si mette alla sua ricerca, riesce a trovarla e possiede tutte le giuste caratteristiche per essere felice (es: salute, soldi, bellezza, ecc…), ma è qualcosa che è alla portati di tutti, poiché è data dalla capacità di ognuno di sviluppare a pieno tutte le proprie potenzialità. Per questo, dal punto di vista scientifico, si parla di benessere: esso coinvolge varie dimensioni dell’individuo, da quello fisico e psicologico a quello sociale, e può svilupparsi nonostante siano in corso malattie temporanee o croniche. Canevaro afferma che il benessere di un individuo non è legato solo alla sfera individuale, ma anche a quella sociale, poiché è dato anche dalla sua capacità di organizzarsi e adattarsi alle strutture e a i contesti che lo circondano. Per questo Delle Fave sottolinea che tutti i membri della società sono coinvolti in questo processo, anche coloro che vengono considerati svantaggiati, come le persone anziane, i disabili, gli immigrati, ecc.. In realtà essi non si presentano direttamente come individui svantaggiati, ma lo diventano poiché la loro condizione porta a delle conseguenze svantaggiose per gli altri, rispetto alle normali attese. Quindi, lo scopo principale, che oggigiorno dobbiamo prefissarci, è quello di permettere che il benessere si diffonda anche tra queste persone, soprattutto tra i disabili, poiché sono sempre stati considerati come una “categoria” che non può essere felice a prescindere, poiché il loro stato di “disabili” comporta tutta una serie di difficoltà, sofferenze e problemi che non hanno nulla a che fare con il benessere e la felicità. Permettere lo sviluppo del benessere tra le persone disabili, non è stata sempre la prima preoccupazione di chi si occupava di loro. Infatti, nei secoli precedenti, le persone disabili non erano proprio considerate parte della società e venivano affidati a delle istituzioni affinché se ne prendessero cura. Solo nel 1800, Edouard Seguin giudò la prima scuola per disabili che aveva come scopo quello di educare i bambini disabili e di sviluppare al meglio le loro capacità, proprio in vista di un loro completo inserimento sociale. Questo tipo di scuola durò poco, poiché, con il passare del tempo, la società non li vedeva “guariti” , e le istituzioni diventarono dei luoghi dove tenere rinchiusi questi individui, in modo che fossero sempre più lontani dalla società che ormai non era più in grado di accettare la loro presenza. Fortunatamente, negli ultimi decenni del secolo scorso, si sono diffuse ampiamente delle politiche che mirano alla “normalizzazione” delle persone disabili e iniziano a diffondersi, istituzioni, associazioni che offrono supporto alle famiglie e anche servizi di educazione speciale, al fine di dare la possibilità ai disabili di prendere decisioni riguardo la loro vita. Questa capacità è fondamentale, visto che il benessere è dato dalle decisioni che prendiamo, dai rapporti che instauriamo con le altre persone e in che modo facciamo nascere e portiamo avanti questi rapporti. È proprio lì, infatti, che risiede il benessere, nel rapporto attivo e positivo che abbiamo con gli altri e con noi stessi, che ci spinge ad impegnarci in dei progetti, a cercare di realizzare i nostri sogni, in modo che, anche per un disabile, i problemi e le difficoltà, vengano accantonati in un angolino, e magari anche smorzati e alleviati da delle attività che si basano sulle loro capacità, sulla loro potenzialità e sulla loro forza di reagire. Costruire a partire dai soggetti e dalla forza che essi esprimono, piuttosto che dalle loro debolezze, si conferma come una sostanziale inversione di marcia rispetto al passato, dove gli interventi di assistenza restituivano al soggetto una totale impotenza e inadeguatezza rispetto al problema; la persona, allora, non poteva far altro che accettare la propria condizione e rassegnarsi ad essa, impoverendo, così, e non stimolando le risorse psicologiche che le spingono a reagire, sulle quali, invece, si dovrebbe far leva. Un esempio di questa grande forza interiore potrebbero esserlo Simona Atzori o Oscar Pistorius, che non sono rimasti lì a crogiolarsi nel dolore e nella sofferenza, ma hanno puntato sulle cose che sapevano fare, sulle loro passioni, sulla loro voglia di farcela, mostrandosi così come persone resilienti, e che hanno portato Simona a diventare una ballerina, a saper dipingere, o Oscar a diventare un campione nella corsa. Da qui parte la riflessione della professoressa Iavarone, che propone una pedagogia del benessere, il cui obiettivo non è (nel caso dei disabili) solo quello di sviluppare le capacità di base, come mangiare, lavarsi e vestirsi, ma e soprattutto, quello di puntare sulle loro capacità e potenzialità, in modo che siano in grado di scegliere il proprio percorso di vita. Il ruolo dell’educatore, o di chi li assiste, dovrebbe essere proprio quello di facilitare il più possibile la messa in atto di questi progetti, grazie ai quali la personalità dell’individuo può svilupparsi al meglio e migliorare, in generale, la sua qualità della vita. Questo ruolo, però, non deve essere ricoperto solo dall’educatore, ma in primo luogo dalla famiglia, poiché è il primo “ambiente” con cui si confronta il bambino disabile. Ovviamente, per molte famiglie, la nascita di un figlio disabile è un trauma, perché viene meno l’immagine del bambino bello e sano che crescerà senza alcun problema. Dopo il trauma, però, c’è una sorta di risveglio e le famiglie capiscono che in fondo non è un’impresa impossibile crescere un bambino disabile; quindi si pongono in maniera positiva, cercando di realizzare il pieno potenziale dei propri figli e tutto ciò ha delle ripercussione positive sulla qualità della vita di tutta la famiglia, che è capace di cogliere gli aspetti positivi di ogni situazione. Tutto questo, insieme alle politiche che vengono adottate in questa direzione, contribuiscono, non solo a migliorare lo standard di vita delle persone disabili, ma anche al loro benessere soggettivo. Quindi non è poi così assurdo pensare che tutti, ma davvero tutti, possano trovare la felicità in ogni momento della propria vita, indipendentemente se essa abbia a che fare con la vecchiaia, una sedia a rotelle, una porsche, la pelle di colore, una scritta in braille, o semplicemente con la normalità…