Esponi il passaggio dall’Icd all’Icf, soffermandoti poi sul contesto e sulle parole disabile e diverso, personalizzando il tuo discorso attraverso una ripresa degli interventi ai laboratori che hai proposto ‘orologio’ /‘barriere architettoniche’, ‘la mappa degli stereotipi’, Sindaco/esperienza di ‘emarginazione’.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato nel 2001 uno strumento di classificazione che analizza e descrive la disabilità come esperienza umana che tutti possono sperimentare. Tale strumento, denominato ICF, propone un approccio all’individuo normodotato e diversamente abile dalla portata innovativa e multidisciplinare.
Vorrei delineare le principali caratteristiche relative alle classificazioni che hanno preceduto l’ICF, analizzandone gli aspetti innovativi . Tale strumento, poco conosciuto e utilizzato in ambito educativo, rappresenta una fonte importante di analisi relativa al mondo della disabilità.
L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha elaborato differenti strumenti di classificazione inerenti l’osservazione e l’analisi delle patologie organiche, psichiche e comportamentali delle popolazioni, al fine di migliorare la qualità della diagnosi di tali patologie.
La prima classificazione elaborata dall’OMS, “La Classificazione Internazionale delle malattie” (ICD, 1970) risponde all’esigenza di cogliere la causa delle patologie, fornendo per ogni sindrome e disturbo una descrizione delle principali caratteristiche cliniche ed indicazioni diagnostiche. L’ICD si delinea quindi come una classificazione causale, focalizzando l’attenzione sull’aspetto eziologico della patologia. Le diagnosi delle malattie vengono tradotte in codici numerici che rendono possibile la memorizzazione, la ricerca e l’analisi dei dati.
L’ICD rivela ben presto vari limiti di applicazione e ciò induce l’OMS ad elaborare un nuovo manuale di classificazione, in grado di focalizzare l’attenzione non solo sulla causa delle patologie, ma anche sulle loro conseguenze: “la Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap” (ICIDH, 1980). L’ICIDH non coglie la causa della patologia, ma l’importanza e l’influenza che il contesto ambientale esercita sullo stato di salute delle popolazioni. Con l’ICIDH non si parte più dal concetto di malattia inteso come menomazione, ma dal concetto di salute, inteso come benessere fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo, la sua globalità e l’interazione con l’ambiente.
L’OMS dichiara l’importanza di utilizzare l’ICD e l’ICIDH in modo complementare, favorendo l’analisi e la comprensione delle condizioni di salute dell’individuo in una prospettiva più ampia.
L’ICIDH è caratterizzato da tre componenti fondamentali, attraverso le quali vengono analizzate a valutate le conseguenze delle malattie:
- la menomazione, come danno organico e/o funzionale;
- la disabilità, come perdita di capacità operative subentrate nella persona a causa della menomazione;
- svantaggio (handicap), come difficoltà che l’individuo incontra nell’ambiente circostante a causa della menomazione.
La presenza di limiti concettuali insiti nella classificazione ICIDH ha portato l’OMS ad elaborare un’ulteriore strumento, “La Classificazione Internazionale del funzionamento e delle disabilità" (ICIDH-2, 1999), che rappresenta il modello concettuale che sarà sviluppato nell’ultima classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “La Classificazione Internazionale del funzionamento,disabilità e salute (ICF)
Il 22 maggio 2001 L’Organizzazione Mondiale della Sanità arriva alla stesura di uno strumento di classificazione innovativo, multidisciplinare e dall’approccio universale: “La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute”, denominato ICF.
L’ICF si delinea come una classificazione che vuole descrivere lo stato di salute delle persone in relazione ai loro ambiti esistenziali (sociale, familiare, lavorativo) al fine di cogliere le difficoltà che nel contesto socio-culturale di riferimento possono causare disabilità.
Tramite l’ICF si vuole quindi descrivere non le persone, ma le loro situazioni di vita quotidiana in relazione al loro contesto ambientale e sottolineare l’individuo non solo come persona avente malattie o disabilità, ma soprattutto evidenziarne l’unicità e la globalità.
Il primo aspetto innovativo della classificazione emerge chiaramente nel titolo della stessa. A differenza delle precedenti classificazioni (ICD e ICIDH), dove veniva dato ampio spazio alla descrizione delle malattie dell’individuo, ricorrendo a termini quali malattia, menomazione ed handicap (usati prevalentemente in accezione negativa, con riferimento a situazioni di deficit) nell’ultima classificazione l’OMS fa riferimento a termini che analizzano la salute dell’individuo in chiave positiva (funzionamento e salute).
L’ICF vuole fornire un’ampia analisi dello stato di salute degli individui ponendo la correlazione fra salute e ambiente, arrivando alla definizione di disabilità, intesa come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole.
L’analisi delle varie dimensioni esistenziali dell’individuo porta a evidenziare non solo come le persone convivono con la loro patologia, ma anche cosa è possibile fare per migliorare la qualità della loro vita.
Ciò che emerge dall’ICF è che la disabilità non viene considerata un problema di un gruppo minoritario all’interno di una comunità, ma un’esperienza che tutti, nell’arco della vita, possono sperimentare. L’OMS, attraverso l’ICF, propone un modello di disabilità universale, applicabile a qualsiasi persona, normodotata o diversamente abile.
Il concetto di disabilità preso in considerazione dall’Organizzazione Mondiale della Sanità vuole evidenziare non i deficit e gli handicap che rendono precarie le condizioni di vita delle persone. Ognuno di noi può trovarsi in un contesto ambientale precario e ciò può causare disabilità. E’ in tale ambito che l’ICF si pone come classificatore della salute, prendendo in considerazione gli aspetti sociali della disabilità: se, ad esempio, una persona ha difficoltà in ambito lavorativo, ha poca importanza se la causa del suo disagio è di natura fisica, psichica o sensoriale. Ciò che importa è intervenire sul contesto sociale costruendo reti di servizi significativi che riducano la disabilità. Molto spesso questo non avviene ed
anche una semplice giornata, che per noi tutti potrebbe sembrare normale e priva di difficoltà , per una persona disabile può diventare complicata a causa delle tante barriere architettoniche che si presentano nel loro quotidiano e che solo loro, talvolta, riescono a percepire.... La barriera architettonica può essere una scala, un gradino, una rampa troppo ripida. Qualunque elemento architettonico può trasformarsi in barriera architettonica e ridurre l’ attività di una qualsiasi persona con disabilità .Ma non bastano le barriere fisiche, ma le persone con disabilità si trovano quotidianamente ad affrontare barriere culturale e ideologiche. A volte si cerca di annullare la "diversità" che ci rende tutti così meravigliosamente unici, si tende a lavorare più sul collettivo che sull'individuo, a creare universi omologati, comunità di simili dove il singolo si deve identificare con il gruppo e la pluralità dei soggetti non sempre viene rispettata. Così l'"alterità" e la "diversità" vengono attribuite non a ciascun individuo in quanto essere differente da un altro, ma solo ad alcuni che presentano "particolari caratteristiche" che li rendono dissimili rispetto all'omologazione dei gruppo. Ed è proprio per questo che la presenza dei cosiddetto "diverso" nella società come a scuola genera conflitti, mette in crisi il normale funzionamento dei sistema e condiziona in modo forte la formazione e la crescita dei singoli, tanto più se si tratta di bambini e adolescenti. La "diversità" è cioè spesso vista in chiave negativa, come "minaccia" della propria identità e per questo la presenza dei "diverso" frequentemente genera sentimenti di paura, ansia, sospetto. Basti pensare a quanto la presenza di portatori di handicap o dei cosiddetti alunni difficili abbia creato in passato ( e talvolta crei ancora) notevoli timori negli educatori e difficoltà relazionali all'interno dei gruppo. Se si riuscisse invece a percepire la "differenza" non come un limite alla comunicazione, ma come un "valore", una "risorsa", un "diritto", l'incontro con l'altro potrebbe essere in certi casi anche scontro, ma non sarebbe mai discriminazione. E l'educazione diventerebbe scoperta e affermazione della propria identità e, contemporaneamente, valorizzazione delle differenze. Invece è il pregiudizio, l’ elemento che a volte muove le nostre azioni e i comportamenti di tutti noi, condiziona le nostre relazioni sociali, ostacolando a volte appunto le opportunità di contatto, incontro, esplorazione, scoperta che sono i fondamenti dei rapporto con l'altro da sé. Quindi se crediamo sia giusto cercare di limitare il più possibile l'insorgere di pregiudizi, è fondamentale intervenire a livello scolastico, educativo, familiare per fare della diversità una vera ricchezza, un nuovo paradigma educativo e per stimolare i bambini e i ragazzi a pensare criticamente piuttosto che dir loro quello che devono pensare. Di conseguenza uno dei compiti della scuola dovrebbe essere quello di educare alla differenza, all'altro, al diverso. La disabilità spesso viene confusa con la diversità ,ma sono due termini profondamente diversi e carichi di molteplici significati che meritano una riflessione. Disabile è una persona che è impossibilitata a svolgere le normale attività della vita quotidiana ,caratterizzata dalla mancanza di una o più abilità oppure dal diverso funzionamento di una o più abilità. La disabilità è anche ciò che gli altri pensano di te , e deve essere quindi analizzata come fattore sia personale sia sociale . Esistono anche persone con disabilità che non si sentono tali, infatti riescono a svolgere tutte le attività. Basti pensare a Pistorius , atleta paraolimpico che nasce con una grave malformazione che lo costrinse all’età di undici mesi all’amputazione di entrambe le gambe. Sembrava destinato a non camminare, figuriamoci a correre. E invece Pistorius corre e non solo; corre e vince! E ancora Simona Atzori, basterebbe guardare il suo sorriso per capire e comprendere la sua felicità. Una ragazza nata senza le braccia che nonostante le sue difficoltà e i suoi deficit motori, riesce a vivere, attraverso la buona volontà, la determinazione e il coraggio, una vita senza limiti. Questa donna si accetta per quello che è, apprezza ciò che la circonda e si sente felice . Esempi di resilienza che ci fanno capire che ognuno di noi è unico,proprio come tutti gli altri.
Anna Maria Murdaca scrive il testo Complessità della persona con disabilità, rifletti su quali logiche guidano il suo discorso, riguardo:
- la rimodulazione del termine integrazione
- la ricostruzione di una nuova cultura della disabilità
- la ridefinizione di un progetto di vita per le persone con disabilità
riportando come, attraverso le tematiche proposte (il contesto sociale, la persona, lo spazio di cura come luogo riparativo), possiamo pensare in modo nuovo ad una relazione educativa.
Dare una definizione univoca, esauriente e completa di handicap è difficile. La storia della terminologia del concetto di handicap è anche la storia della ricerca scientifica, dell’attività sociale, dell’attività degli insegnanti, storia di diverse epoche e di diversi luoghi. È interessante ripercorrere le varie fasi che il soggetto con handicap ha dovuto affrontare prima di essere preservato ed integrato all’interno della società. Le persone handicappate erano percepite tutte uguali e venivano
raggruppate in un’unica categoria, : quella degli “anormali” e contrapposta a quella dei “normali”; in essa venivano idealmente inserite persone con caratteristiche che, in qualche modo, le accomunavano.
Queste persone, bambini o adulti che fossero, erano viste attraverso immagini rigide, che si fondavano sulla loro “negatività” … “non possono, non capiscono, non sanno … “; nasce così la cultura dello scarto, la logica della separazione.
L’esistenza degli handicappati era interpretata all’insegna di una diversità che si trasformò, presto, in segno di inferiorità e che per essere tenuta a bada, doveva essere isolata, trattata in luoghi opportuni.
Ecco allora i due modelli di comportamento sociale dell’ uomo nei confronti degli handicappati: commiserazione ed esclusione. La commiserazione spingeva ad assistere il bisognoso, l’esclusione spingeva ad emarginare l’handicappato ai confini della società affidandolo ad istituzioni speciali, senza considerare che l’esclusione, la condanna al silenzio, la non visibilità sono la pena peggiore che può essere inflitta ad un essere umano che, per riconoscersi, ha bisogno sempre del riconoscimento proveniente dall’ esterno. Nel passato, quindi, il disabile era emarginato, “invisibile” o peggio ancora, eliminato. Ad esempio,in classe abbiamo svolto una simulazione all’interno della quale la professoressa, che deteneva il ruolo di sindaco della città, emarginava una parte di essa: coloro che avevano gli occhiali. Io “fortunatamente” non facevo parte di loro e guardavo con stupore tutti coloro che, messi in un angolo della “città”, volevano esprimere il proprio pensiero, ma non venivano ascoltati.
La prima immagine attribuita all’handicap nella storia è quella di monster naturae, presente nell’antichità e nel Medioevo. Il “mostro” era il bambino che nasceva con un deficit, che era visto come un qualcosa di spaventoso, la cui madre veniva addirittura punita con la morte per averlo messo al mondo.
Nell’Ottocento, l’handicappato diviene un selvaggio da educare e la causa della sua malattia è attribuita all’ambiente in cui egli è cresciuto.
Nel vangelo troviamo indicazioni circa le credenze popolari del tempo secondo le quali l’handicap è considerato il frutto di un peccato. Il bambino con handicap era quindi un peccatore da salvare.
Passo importante si ha quando il soggetto con handicap diviene il malato da curare e finalmente, ai giorni nostri, con la fondazione di comunità e cooperative, il disabile è considerato persona da integrare. Tra le definizioni più accreditate si ha quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) del 1980, in cui si distinguevano il livello della menomazione, il livello della disabilità e il livello dell’handicap: ““condizione di svantaggio, conseguente ad una menomazione o ad una disabilità, che in un certo soggetto limita o impedisce l’adempimento di un ruolo sociale considerato normale in relazione all’età, al sesso, al contesto socio-culturale della persona .L’ integrazione del disabile all’ interno della società è uno dei temi trattati all’ interno del testo Complessità della persona e disabilità” di Anna Maria Murdaca .Secondo l’ autrice occorre adottare una nuova cultura e conoscenza della disabilità incentrata sul riconoscimento della persona in evoluzione .E’ il contesto sociale a determinare ,secondo Murdaca, la condizione di handicap ,sono gli ostacoli e le barriere fisiche a favorire il processo di esclusione oppure quello di emarginazione. La famiglia , la società, il contesto lavorativo sono elementi che possono influenzare lo stato di salute ,ridurre le nostre capacità di svolgere compiti che ci vengono richiesti e porci in una situazione di difficoltà. Essere genitore di un figlio con handicap non è un ruolo che si sceglie e quindi non sempre si è preparati ad affrontare una responsabilità così faticosa e impegnativa; la nascita di un figlio disabile comporta una situazione di perdita, , è un evento che destabilizza e distrugge con violenza gli equilibri preesistenti. Si attiva fin da subito, soprattutto nella madre che riveste un ruolo fondamentale nella presa in carico del bambino, un meccanismo di colpevolizzazione in due direzioni: verso di sé, per aver messo al mondo un essere imperfetto e verso i medici, per le cure fornite al momento del parto e per la tempestività e correttezza della diagnosi.
Per questo è importante fornire dei supporti sia sociali, sia psicologici, sia medici alla famiglia.
Quando non si riesce a superare il dolore iniziale, si può evidenziare un atteggiamento di rifiuto, che talvolta si esprime nel correre da uno specialista all’altro per trovare una soluzione definitiva al problema; un atteggiamento iperprotettivo, tale da impedire al figlio con handicap di crescere e socializzare. Anche l’integrazione scolastica degli alunni disabili è comunemente considerata fondamentale per una loro effettiva integrazione sociale.
Essa, infatti, , è intesa come un processo di cambiamento, rappresenta,dunque, una occasione irripetibile per un completo e sereno sviluppo della personalità dell’alunno disabile, e quindi, per una sua reale partecipazione alla vita sociale.
Il presupposto di base dell’integrazione scolastica è che tutti gli studenti, compresi quelli disabili, siano membri a pieno diritto della comunità e della classe.
Questo concetto implica che l’aula della scuola comune sia modificata per adeguarsi a tutti gli studenti, e che offra servizi particolari a tutti gli alunni al suo interno .
Le moderne tecnologie disponibili, se correttamente usate sono in grado di limitare gli effetti negativi e di compensare i deficit personali che la disabilità comporta .
L’ integrazione è un processo continuo non un punto di arrivo ,una continua ricerca di soluzioni per preservare i diritti acquisiti dei disabili.
Esistono molte disabilità e tutte diverse una dall’altra, con sintomi diversi, con esigenze diverse e con soluzioni diverse, ma tutte unite da un concetto basilare: i disabili non sono merce, sono persone e come tali devono essere trattati, anche nella loro cura.
Ritengo che la cura, là dove necessaria, vada collocata nella sfera della sanità e non solo .Cura vista come un atto di umana comprensione capace di aiutare le persone con deficit. Murdaca scrive che ci troviamo davanti ad un “nuovo paradigma del benessere .La vera novità è che non si mira alla’ accadimento della persona disabile ma alla sua emancipazione ,alla sua crescita in tutte le varie dimensioni .Si parla inoltre di relazione educativa. La relazione educativa è un complesso legame che si forma tra due o più persone , è un rapporto che si istaura tra una persona guida e una persona in difficoltà . In tale tipo di relazione avviene uno scambio dove si da e si riceve. Alla base della relazione vi è la volontà di costruire un rapporto predisponendosi all’accoglienza , all ‘ascolto, lasciando spazio alla libertà dell’altro costruendo un progetto di vita personale. Ogni incontro umano è educativo, in quanto è portatore di significato, valori o anche semplicemente di opinioni. L’educatore deve trasmettere qualcosa di positivo all’educando,visto che svolge una funzione importantissima. Egli si pone come guida nei confronti di coloro a cui intende donarsi, perché educare è proprio questo. In una buona relazione educativa si devono creare una serie di situazioni che mettono a proprio agio il soggetto che si ha di fronte. Bisogna creare un rapporto alla pari senza creare differenze, in modo tale che il soggetto si senta libero di esprimere le proprie idee. Per quanto riguarda la relazione educativa al disabile, bisogna prendere in considerazione le diverse situazioni e far emergere le doti del disabile non mettere in luce le sue “mancanze”. Per sperimentare ancor meglio la relazione educativa e capire nel concreto come si svolge abbiamo svolto in classe alcuni esempi attraverso due setting proposti dalla professoressa e svolti attraverso l’aiuto di alcune colleghe. Il primo vedeva coinvolti un bambino con la rispettiva madre e un’educatrice. Ho notato subito la prossemica dell’educatrice nel rivolgersi prima al bambino poi nei confronti della madre,verso la quale si è mostrata disponibile ed accogliente. Il senso di rabbia che provava questa madre verso la maestra di sostegno che non si era presentata per giorni alla lezione era rivolto tutto verso l’educatrice, come un urlo di aiuto e l’educatrice non solo lo ha accolto ma ha dato la speranza che tutto potesse sistemarsi.
Il secondo setting è stato diverso perché ha visto come protagonisti un adolescente di 17 anni e un educatrice adulto. La ragazza che lamentava la sua esclusione in classe,la solitudine, il non avere amici ed era abbastanza timorosa nei confronti dell’educando che pero si è disposta all’ ascolto cercando di tranquillizzarla. Si può notare, quindi, quanta importanza ha instaurare una buona relazione educativa tra due persone.
Remaury, Lipovetsky e Braidotti: proponi, arricchendole di riferimenti, le tue riflessioni su questi autori sul corpo trasformato e mostruoso (anche in riferimento al laboratorio le protesi estetiche).
Essere in forma e sempre affascinanti è oggi un imperativo categorico; tuttavia la ricerca della bellezza può anche non produrre felicità. Per bellezza s’intendono delle qualità esteriori o interiori che suscitano impressioni gradevoli. Tuttavia ciò che riveste maggiore considerazione e importanza all’interno dell’opinione pubblica è l’aspetto esteriore, quello superficiale e apparente che permette di sentirsi sicuri dei propri mezzi e di essere efficacemente valutati dalle persone.
Questa ricerca di stima da parte della gente diviene pertanto desiderio di felicità, un’aspirazione che non sempre trova una concretizzazione.
I mass-media tempestano giovani e non, di icone di perfezione e di modelli di bellezza irraggiungibili, lasciando credere che solo il raggiungimento di tale scopo possa comportare una realizzazione, minimizzando e talvolta tralasciando aspetti importanti , reale fonte di gratificazione e piacere come amore, amicizie e traguardi di vita concretizzati.
Difatti non si propone una via di mezza tra eccessiva magrezza e obesità, ma si ha un’estremizzazione dell’una e dell’altra. Il tema della bellezza e della trasformazione del corpo è trattato in maniera esauriente da tre scrittori e filosofi contemporanei:) Remaury, Lipovetsky e Rosi Braidotti. Il primo di cui parlerò è Remaury. Egli nel suo libro “Il gentile sesso debole, Le immagini del corpo femminile tra cosmetica e salute”, dichiara che nella cultura dell’immagine, la donna, molto spesso, è confusa o associata, alla bellezza. Ci si aspetta che la donna coltivi a tutti i costi la sua bellezza, il suo corpo, e che il miglioramento fisico ed estetico, sia l’adempimento ai suoi bisogni primari, e cioè quelli di essere bella, attraente e perfetta. Questi bisogni impellenti di essere sempre belli, perfetti e di apparire sempre giovani, sono stati indotti dalla società, la quale ci bombarda ogni attimo con immagini di corpi perfetti, giovani e sani. Da sempre la cura del corpo è stata associata ala donna, in modo particolare alla donna bianca, magra, famosa e giovane. Molti pensano che essere belli fuori significhi esserlo anche dentro e quindi, per raggiungere questo livello di perfezione (taglia 42) si fa di tutto. Si trasforma il proprio corpo in ogni modo, come fanno le donne orientali. Queste ragazze sono disposte a sottomettersi ad ogni intervento chirurgico, anche quello più doloroso ed estremo, come il prolungamento degli arti inferiori, pur di somigliare alle donne occidentali. Quest’ultime, dal canto loro, sono sempre più spesso vittime delle malattie “del cibo”, come anoressia e bulimia, per arrivare allo stereotipo della donna perfetta. Per Remaury, l’obiettivo di tutti è: giovinezza- bellezza- salute. Il corpo perfetto è quello liberato da tutti i “mali”. Lipovetsky parla, ne “La terza donna”, di un corpo liberato dalle malattie e quindi sano, libero dal tempo e quindi giovane e libero dal peso quindi magro. La donna, nel controllare la propria immagine, si avvia sempre più verso il corpo realizzato, ossia verso la conquista di un corpo perfetto, ottenuto attraverso la bellezza e la salute. La terza donna di Lipovetsky, raggiunge una maturazione positiva nella quale, la donna, gestisce la propria immagine, con la capacità di scegliere, tra i tanti modelli proposti dalla società, quello perfetto per lei. È bene ricordare che magrezza non è uguale a bellezza. Un esempio sono le modelle anoressiche, che rappresentano il bello che diventa mostruoso. La modella anoressica è diventato il modello per eccellenza da seguire, a cui tutte le ragazze aspirano. È il femminile mancante, deformante (senza carne, curve o sviluppo), dalle forme disumane. Il mostruoso, con la malattia, diventa un modello estetico, e di desiderio maschile.
Rosi Braidotti tramite varie riflessioni filosofiche storiche e culturali in “Madri, mostri e macchine” arriva a spiegare il corpo femminile in cui vediamo la donna capace di deformare nella maternità il proprio corpo, una sua tendenza al corpo macchina per quanto riguarda l’idea di poter uscire dai vecchi canoni di bellezza, e la mostruosità in cui l’orribile è meraviglioso. Quindi in questo modo Rosi Braidotti da una sorta di spiegazione riguardo all’esigenza di un corpo trasformato e mostruoso. Spesso per raggiungere questa meta si fa uso della scienza, e in particolare le protesi estetiche, utili per divenire ciò che si vuole: spesso fotocopie del canone imposto dalla società, ma anche al contrario, un modo per distinguersi divenendo diversi dai “normali”. A tal proposito ricordo il laboratorio riguardo le protesi estetiche che ci chiedeva appunto di dire se eravamo pro o contro le protesi estetiche. Io credo che vi debbano essere dei margini di utilizzo di questi utilissimi progressi scientifici, in quanto se usati per migliorare realmente e praticamente le condizioni di vita di una persona sono più che a favore altrimenti sono contro. Mi sento una ragazza fortunata in quanto accetto il mio aspetto fisico e cerco di dare molto più valore a quello che riesco a trasmettere alle persone attraverso il mio pensiero.
Remaury e Lipovetsky , nei loro testi ,analizzano il concetto di bellezza, sottolineando come essa sia diventata un obiettivo che ogni individuo pretende di raggiungere perché gli facilita l’accesso nella società. Ad esempio Remaury, nel “Gentil sesso debole”, afferma che il miglioramento dell’aspetto fisico fa parte dei bisogni da adempire,bisogni,che sono,a loro volta,imposti dalla società stessa. Lipovetsky ,inoltre,evidenzia come l’eterna giovinezza,la perfetta bellezza e la salute totale ,siano diventate strade obbligatorie che i soggetti ,in particolare le donne,devono percorrere per raggiungere un corpo perfetto e la conseguente accettazione da parte della società. Rosi Braidotti parla addirittura di corpo-macchina,riferendosi al legame tra femminismo e tecnologia, cioè del corpo femminile che incarna ,oltre alla maternità e alla mostruosità, anche la macchina. Nella società odierna si ricorre sempre più spesso alla chirurgia estetica per togliere rughe,per aumentare di una taglia il seno,per eliminare qualche difetto del corpo,si usano creme e svariati prodotti per essere belli e sempre più uguali ai modelli proposti dalla tv e dai giornali. L'apparenza supera di gran lunga la sostanza. Ricorrere all'utilizzo di protesi,bisturi,al botulino e quant'altro è giusto nel momento in cui si ha un difetto grave che crea disagio nella persona. Non lo è quando si vuole soddisfare un capriccio,quando si vuole essere accettati dalla società annientando il proprio io interiore. Cerchiamo di essere e non di apparire,miglioriamo l'anima e non il corpo, perché dopo la vita non conterà quanto siamo stati belli fuori,ma quanto lo siamo stati dentro.
Remaury e Lipovetsky si occupano della nuova concezione del corpo. Un corpo che deve essere necessariamente bello. Ma non il bello soggettivo, bensì il bello oggettivo, quello imposto dalla società e alla quale si aspira. In particolare Remaury individua una vera e propria corsa alla perfezione che si pone come obiettivo la triade giovinezza- bellezza- salute. Pertanto emerge il concetto di corpo liberato da cui Lipovetsky prende spunto per la sua riflessione; la liberazione de La terza donna celebrata da Lipovetsky è una liberazione del corpo dalla malattia cioè sano, dal peso cioè magro, dal tempo cioè giovane. Ecco dinuovo realizzata la triade. … prima il corpo doveva servire, ora è l’individuo ad essere al servizio del proprio corpo(Baudrillad). Ma il più delle volte questa triade è associata alle donne, al corpo feminile.