Importante nella vita di tutti i giorni, è l’utilizzo della parole, che spesso vengono usate in maniera errata perché non se ne conosce il significato oppure perché spesso si pensa che termini totalmente opposti tra loro siano per qualche strana ragione sinonimi. Questa mancata attenzione, però viene attuata anche nel momento in cui si trattano temi delicati facendo confusione, ad esempio, tra handicap, disabilità e menomazione. A tal proposito, negli anni ’70, l’OMS - Organizzazione Mondiale della Sanità - ha deciso di dar vita ad una classificazione delle malattie formando un’enciclopedia. Nacque così l’ICD -Classificazione Internazionale delle Malattie – che coglieva le cause delle malattie fornendo una descrizione di quest’ultima e facendo attenzione all’ aspetto eziologico seguendo il seguente schema:
EZIOLOGIA PATOLOGIA MANIFESTAZIONE CLINICA
Agli inizi degli anno ’80, fu apportata una modifica all’ICD, dando vita all’ ICIDH che aveva in comune con l’ICD il termine menomazione – in entrambi i casi,infatti,si vuole indicare un problema fisico o organico che non può essere definito in altro modo – e che differiva da quest’ultimo per i termini abilità e partecipazione che sostituiscono i termini disabilità ed handicap. Quindi:
ICD
• Menomazione
• Disabilità: limitazione, conseguente a menomazione,di svolgere determinate attività che sono considerate normali da un essere umano. È la perdita di una capacità operativa ed è formata da esclusioni nella realizzazione dei compiti. Così facendo si oggettiva la menomazione.
• Handicap: nasce dalle barriere che la società pone, portando quindi ad uno svantaggio nel soggetto. Comprende, inoltre, anche la difficoltà che il soggetto affronta nel confrontarsi con gli altri.
ICIDH
• Menomazione
• Abilità
• Partecipazione: maggior attenzione alla capacità del soggetto e al suo coinvolgimento sociale in quanto,questi, non è una persona disabile ma diversamente abile, cioè una persona che ha altre caratteristiche e opportunità rispetto agli altri.
Negli anni ’90,però,ci si rese conto che non si potevano prendere in considerazione solo i fattori biomedici, ma c’era bisogno anche di prendere in considerazione il contesto sociale,perché spesso è questo che rende determinate situazione sfavorevoli. Si decise così di dar vita all’ ICF – Classificazione Internazionale del Funzionamento ,della disabilità e della salute – che vede la disabilità come qualcosa derivante da un contesto sfavorevole (seconda parte dell’ICD,perché la prima si basa sul funzionamento e disabilità), che spesso pone delle barriere e che non permette al soggetto di dar vita alla propria personalità. Ci sono, a tal proposito, due tipi di barriere:
- quelle da me definite “mentali”, che portano ad una disfunzione a livello psicologico. Nascono dal nostro modo di considerare le persone diversamente abili incapaci nello svolgere un’attività. Così facendo, si viene ad abolire la resilienza che è in loro, portandolo a sentirsi inferiori al resto del mondo a causa dei giudizi altrui.
- Quelle da me definite “materiali” che dipendono dal contesto in cui si vive e dalla società, che non è predisposta in maniera adeguata verso persone con disabilità. La stessa società,infatti, spesso non prende in considerazione la necessità di dare degli aiuti alle persone diversamente abili, anzi, se proprio vogliamo precisare la situazione, gli aiuti ci sono perché ci sono moltissime leggi che vanno a tutelare le persone diversamente abili, ma nessuna di queste viene attuata. A tal proposito, in aula,vedemmo dei video che mi lasciarono abbastanza basita ,perché, si notava la difficoltà di persone paraplegiche, costretti a camminare in mezzo alla strada dove passavano le macchine perché non c’erano gli scivoli ai marciapiedi,oppure non potevano prendere un mezzo pubblico perché non c’erano i giusti ausili. La stessa difficoltà la si sarebbe incontrata nello svolgere le attività che svolgevo io (chiesa, università, uscite varie con mezzi pubblici…)e che ho messo in evidenza nell’orologio, l’attività più difficile che abbia mai svolto, solo perché non ho mai pensato a quante barriere ci potessero essere, dato che a me sembra tutto naturale e semplice.
Nel nuovo millennio, il millennio della tecnologia,della domotica (come abbiamo visto nelle ultime lezioni in aula),dell’apertura mentale, non è possibile che ragioniamo ancora così, che esistano spazi adatti con altrettanti ausili utili e che non permettiamo ad una persona diversamente abile di svolgere una vita normale. Ieri, a tal proposito,parlando con un amico del peso delle parole, arrivai a scontrarmi con lui proprio perché definiva tutte le persone diversamente abili come “handicappati” e non ammetteva ragioni nel capire che sono due significati del tutto opposti, perché alla fine per lui il termine “handicappato” indica una persona disabile, quindi perché non usarlo? Ma soprattutto,cosa che mi ha fatto arrabbiare ancora di più, perché considerare queste persone capaci di svolgere delle attività come tutti noi? Questo,dopo essermi arrabbiata abbastanza,mi ha portata a capire quanto la nostra mente ancora oggi sia chiusa non solo a livello terminologico( in questo caso penso che non si debba parlare di vera e propria chiusura mentale, in quanto molte persone non conoscono l’esistenza di tutte queste diversità di significato tra i termini), ma anche e soprattutto, a livello di considerazione delle capacità di persone che non sono normodotate. Molti pensano infatti, che una persona diversamente abile non sia in grado di poter far nulla a causa della sua disabilità; è così che si vengo a creare i pregiudizi, perché alla fine quello del mio amico (e di molte altre persone che sicuramente ci sono, ma non conosco) sono pregiudizi basati sul nulla, che non hanno senso, ma soprattutto che vanno a dispregiare quello che è l’essere speciale che abbiamo di fronte.
All’interno di questo vasto discorso, inoltre,chiesi se diverso e disabile per lui fossero la stessa cosa e lui rispose di si, considerando questi termini quasi intercambiabili tra loro senza capire che se la disabilità è un’oggettivazione della menomazione derivante da un contesto sfavorevole o dall’impossibilità di svolgere determinate azioni; la diversità è solo uno stereotipo sociale, qualcosa che nasce da noi e che porta poi alla categorizzazione di tutte quelle persone con determinate difficoltà. Diverso,infatti, significa avere addosso un etichetta che ti porta ad essere oggetto di pietismo oppure addirittura di emarginazione. Ciò mi permette di collegarmi alla simulata fatta in aula sulla emarginazione (sindaco/ cittadino) che portò la maggior parte di noi a ragionare su quanto possa essere doloroso sia emarginare(se dall’altro lato c’è una persona a cui vuoi bene) sia essere emarginato. A volte ciò accade non solo per problemi di disabilità, ma anche per piccoli motivi, come capitò a me alle medie che mi prendevano in giro per le orecchie, e che portano comunque il soggetto a sentirsi escluso, brutto e a porsi domande a cui non si può dare una risposta perché fondamentalmente, non c’è una motivo valido del perché accada ciò.
Importante, su un argomento tanto delicato, è il libro della Murdaca “complessità della persona con disabilità” che mette in evidenza la rimodulazione del termine integrazione; che mira alla ricostruzione di una nuova cultura della disabilità e alla ridefinizione di un progetto di vita delle persone con disabilità.
Partendo dal primo degli obiettivi qui riportati, la Murdaca, tende a rimodulare il termine integrazione perché capisce che nella società odierna, l’integrazione viene vista come un fine da raggiungere. Una volta che il ragazzo diversamente abile si è integrato, l’educatore, l’insegnate e la famiglia, pensano di aver raggiunto il loro obiettivo, invece non è così. Come ci dice la stessa scrittrice, l’integrazione è un processo in continua evoluzione e che dura tutta la vita, una continua ricerca di strategie, di soluzioni, atte a far integrare la persone, nel migliore dei modi, nel contesto in cui si trova, che cambia continuamente e che va dalla scuola, alla famiglia, al tempo libero ecc…. Per fare ciò, però, è necessario ricorrere alla logica della globalità, che prende in considerazione l’interazione tra i sistemi biologico, intellettivo, affettivo e sociale. Per questo motivo,un individuo svantaggiato non deve essere identificato con il suo stesso deficit, ma ha pari diritti e dignità di tutti gli altri esseri umani e deve essere considerato "persona", nell’accezione più globale del termine. La persona,infatti, non può essere scomposta in funzioni, cioè non si possono mettere dei limiti, in quanto questi spesso possono essere superati - un esempio è l’Atzori, che se solo le fossero stati posti dei limiti, lei non avrebbe mai avuto l’opportunità di ballare, cosa che non è accaduta perché si è considerata la globalità della persona che ha dato vita a un comportamento resiliente - bisogna,quindi,dare spazio a tutte le sue capacità e ciò viene affermato anche dalla legge 104, 5 febbraio 1992 – LEGGE-QUADRO PER L'ASSISTENZA, L'INTEGRAZIONE SOCIALE E I DIRITTI DELLE PERSONE HANDICAPPATE –
Il nuovo concetto di integrazione, quindi, comprende anche quelli che sono i concetti di accoglienza verso le diverse identità con cui veniamo a contatto in un’ottica olistica e condivisione dei valori che prendono in considerazione la dignità,l’identità e le potenzialità personali. Questo cambiamento di rotta che avviene nel rimodulare il termine integrazione, porta a sua volta alla nascita di una cultura della disabilità, che non deve essere vista più come una malattia da curare, ma deve mirare all’emancipazione del soggetto, che deve diventare indipendente non solo da quelli che sono le barriere fisiche, ma anche mentali che spesso vengono imposte dagli altri. La disabilità quindi cambia, perde il suo valore spregiativo per aprirsi all’integrazione e al cambiamento educativo. Questo cambiamento consiste nel considerare i disabili cittadini a pieno titolo, dove i soggetti con disabilità non sono più oggetto di pietismo, ma responsabili di relazioni. Attuare ciò,non è una cosa semplice,infatti, è necessario avere delle misure di sostegno, sia pedagogiche che sociali, adatte. Si viene così a creare un nuovo scenario che si basi su rapporti educatori / insegnanti a pieno titolo ed esperti nel cerare una rete tra la persona, il contesto sociale,l’ambientale, gli spazi educativi e infine la famiglia. Includo anche quest’ultima, perché, non sempre la famiglia è pronta ad affronta un problema di disabilità. Spesso i componenti si trovano spiazzati,dando vita a situazioni peggiori di quelle che si possono incontrare nel mondo esterno. Non essere accettati dalla famiglia o essere trattati con pietismo da questi ultimi, è peggio del vedere attuare determinati comportamenti da persone estranee. In questo modo la persona diversamente abile si trova ad essere ancor più sfiduciato, perché viene a mancare quello che è un buon rapporto madre/figlio oppure figlio/componenti familiari. I rapporti educativi, sono alla base di una buona integrazione e di una formulazione di una nuovo programma per la persona con disabilità; un progetto di vita che deve essere costruito con l’aiuto dell’educatore, che deve porre il soggetto con disabilità sul suo stesso piano. Si devono, quindi, instaurare dei rapporti di fiducia e di scambio reciproco; bisogna entrare nell’ottica dell’ “arricchimento bilaterale”. Non è solo l’educatore a dare, ma anche la persona che è di fronte all’educatore o all’insegnante.
Allo stesso tempo, il contesto, deve essere considerato "spazio riparativo" dove il disabile può sperimentare, con gli educatori e gli insegnanti, una serie di situazioni e vissuti emotivo-affettivi che vengono elaborati, criticati, proiettati, ricostruiti e integrati nella relazione educativa. L'integrazione diviene la costruzione di luoghi nei quali il disabile può trovare gli elementi e i mezzi per costruire la propria identità e raggiungere la propria autonomia. Tutto ciò, infine, non si deve basare su soluzioni generali, ma ogni soluzione è a se stante, perché ogni soggetto è diverso e ogni contesto in cui l’educatore, l’assistente socio-sanitario,l’insegnante si trovano a lavorare è sempre diverso, come diverso è il vissuto della persona con disabilità.
Come si può notare, però le difficoltà di integrazione, non le vivono solo le persone diversamente abili, o menomate, ma le vivono tutti coloro che hanno un determinato aspetto o che non rispecchiano i canoni della bellezza che la società impone. Questi canoni, posso essere soddisfatti solo tramite gli interventi chirurgici e le protesi estetiche che non sono più fatte solo per motivi “curativi” (laddove ci dovesse essere una menomazione), ma vengono fatte per motivi estetici, a tal punto che nella società si è diffusa moltissimo la chirurgia estetica, praticata dagli uomini,ma soprattutto dalle donne,la cui figura, orami, si confonde con quella della bellezza, concetto diffuso grazie ai mass media che propongono l’ideale della femminilità che deve essere per forza coltivato dalla donna. In genere, infatti, si tende ad attribuire delle qualità ad una donna bella, senza sapere che forse quella donna interiormente e caratterialmente è vuota; al contrario, si tende ad attribuire caratteristiche spregiative ad una donna che invece è brutta, quando probabilmente questa abbia molte più virtù di quanto possa sembrare.
A tal proposito, possiamo far riferimento a tre autori importanti che hanno trattato il tema del corpo trasformato e mostruoso, Remaury, Lipovetsky e infine Braidotti.
Remaury afferma che i bisogni di bellezza,di miglioramento fisico e di giovinezza, siano stati imposti dalla società e siano diventate le caratteristiche che deve avere una donna oggi per vivere nel mondo televisivo e che condizionano la vita quotidiana. Sempre più donne,infatti, tendono a restare giovani, a trasformare o abolire quello che è il passaggio del tempo solo per paura di invecchiare, mostrare la propria età e non essere apprezzati dagli altri. L’autrice,infatti, parla di “manipolazione corporea”, che si dirama in tantissimi campi da quello genetico a quello chirurgico, arrivando addirittura a quello dietetico, che porta le donne ”più robuste”, a seguire metodi alimentari particolari o addirittura a diventare bulimiche o anoressiche, rendo , così, il loro corpo privo di forme e di bellezza, privo di quella femminilità che la donna pensa di aver raggiunto con questi metodi. Questo tema così delicato, viene trattato e approfondito da Lipovetsky che mette in evidenza due temi fondamentali. Il primo prende il nome dal suo libro, cioè “La terza donna” dove non si tende a sottolineare l'uguaglianza dei sessi, ma la loro diversità intrinseca; il fine ultimo della sua tesi è mostrare come la donna realizzi se stessa realizzando pienamente e consapevolmente la propria differenza. Per questo, dopo aver analizzato due modelli del passato ( la prima donna: svalutata, sfruttata, demonizzata; la seconda: l'icona, l'ideale di virtù, la Beatrice) in cui la diversità è stata strumentalizzata per neutralizzare la stessa donna con la sua indipendenza e differenza, eccolo individuare le terza via, che di questa diversità recupera il senso profondo. L’autore si chiede se nella moderna società occidentale, dove la parità dei diritti è sancita per legge, le scelte dei due sessi in materia di amore, matrimonio, lavoro, figli spesso sono divergenti perché resistono ancora i cliché del passato. Il secondo tema fondamentale,invece, è la de-femminilizzazione della donna, considerando la bellezza come una malattia che porta a quello che è un corpo mostruoso. Del corpo mostruoso, invece, ne parla Braidotti, che tratta il tema della normalità definendola “grado di mostruosità zero” . Questa riassume in sé una serie di aspettative e di norme socio-simboliche che fanno di un certo tipo di corporeità il modello di base. La scienza ha manifestato interessi morbosi nel controllare la riproduzione dei mostri. La procreazione di corpi abietti e mostruosi, è stata oggetto di studi approfonditi. Il bello del mostruoso, però, è che vince sempre e questo è stato prova in numerosi testi scritti,ma soprattutto nei cartoni Disney dove il famoso “Gobbo di Notre Dame, Quasimodo” o la “sirenetta Ariel” erano considerati esseri mostruosi e quindi cattivi, invece, alla fine si sono dimostrati capaci di aiutare chiunque, dando vita alla loro personalità e al loro lato buono che non era stato considerato dal popolo raffigurato nei cartoni animati. Quanto detto fino ad ora,quindi, ci fa capire quanto le persone non devono essere giudicate dall’aspetto fisico, ma dal loro carattere e dalle loro capacità; devono, come detto prima, essere guardati nella loro globalità e non guardare solo ciò che non va bene, spingendoli a gesti del tutto errati come la chirurgia plastica, che modifica il corpo rendendolo “artificiale”.