PUNTO 1
Vorrei cominciare questo mio resoconto dicendo che questo corso è stato veramente formativo,mi ha aperto gli occhi e la mente su dei concetti che consideravo ovvi e scontati. Ho avuto,grazie ad esso,la possibilità di riflettere su una realtà che consideravo completamente lontana da me rendendomi conto che è molto più vicina di quanto potessi immaginare. Ho provato a guardare la vita con gli occhi di chi ogni giorno viene etichettato per una sua mancanza,di chi ogni giorno riesce a superare barriere fisiche e mentali,di chi ogni giorno,nonostante tutto,dice “si” alla vita e combatte per la sua normalità,capendo quanta diversità e normalità esiste in ognuno di noi,che oltre all’apparenza esiste una persona,un essere umano con la propria storia,con il proprio bagaglio. “Ognuno ha la sua valigia,ma una valigia è diversa dall’altra”,proprio per questo motivo è importante non solo rispettare l’altro,chiunque esso sia,ma è importante imparare a ponderare la scelta e l’uso delle parole. Infatti spesso si fa confusione tra i termini “disabilità”, “handicap” e “deficit” credendo che indicano tutti la stessa cosa,ma non è così e confonderli porta ad aumentare ancora di più il deficit anziché ridurlo. Per “disabilità” s’intende una menomazione,vale a dire quella perdita o anormalità a carico di una struttura fisica,psicologica o anatomica,che non permette ad un individuo di svolgere determinati compito attività nel modo ritenuti normali. Rappresenta una condizione che va oltre questa limitazione,che supera barriere architettoniche e mentali. Barriere architettoniche che nonostante la tecnologia,ormai molto avanzata, esistono ancora nella nostra società,una società sempre di corsa,frenetica,bendata di fronte a tali problematiche,una società cieca che, non vedendo il mondo,si limitano a subirlo,rimanendo immobile,impassibile di fronte a “piccoli problemi” che con un minimo di umanità e buon senso in più potrebbero essere risolti,dando a tutti la possibilità di vivere la propria autonomia. Basterebbe togliersi la benda e cominciare,finalmente, a vedere e vivere veramente la vita,a pensare a quelle cose che realmente contano,imparare che “se si ha fretta è necessario fare una passeggiata”(proverbio giapponese),al fine di cogliere ogni sfumatura che si presenta davanti ai nostri occhi,quelle sfumature che vanno oltre quei colori che tutti vedono,o credono di vedere. Il termine “handicap”,invece, si traduce in italiano come “svantaggio” e trova le sue origini nell’ambiente delle corse ippiche inglesi,in cui un fantino veniva costretto a gareggiare portando la mano sinistra, “hand”,sulla visiera del cappello,”cap”,avendo maggiore difficoltà nell’equilibrare la sua posizione rispetto a chi poteva utilizzare entrambe le mani. Proprio per questo motivo il termine “han in cap” indica una difficoltà che una persona disabile ha nel confrontarsi con gli altri,rappresenta un disagio sociale che deriva da una perdita di funzioni o di capacità. Molto spesso il termine “handicap” viene confuso con il termine “deficit” ma indicano cose completamente diverse: come già specificato l’handicap rappresenta la difficoltà nello sviluppare quelle capacità necessarie alla realizzazione della personalità integrale,invece il “deficit” rappresenta un difetto organico. Questa confusione porta a considerare tutti coloro che hanno un deficit come uomini diversi dagli altri senza capire che una persona può essere menomata senza essere disabile,e disabile senza essere handicappata. La disabilità può portare all’handicap, ad uno svantaggio che si manifesta con l’integrazione con l’ambiente,ma l’handicap può avvenire senza comportare però, uno stato di disabilità permanete. Proprio per questo continuo uso sbagliato di parole e continua confusione tra le diverse patologie l’OMS, l’organizzazione mondiale della sanità,nel 1970 elaborò una prima “classificazione internazionale delle malattie”,meglio nota come ICD,al fine di cogliere la causa di ogni patologia e classificarle in base ad ogni sindrome e disturbo,al quale veniva associata una descrizione con caratteristiche cliniche e diagnosi precise. Per rendere tutto meno complesso e rendere la ricerca e l’analisi dei dati più semplice e più veloce,ad ogni diagnosi venne assegnato un numero,un codice numerico. Nel 1980 l’OMS mise a punto una nuova classificazione internazionale detta ICIDH, ”International classification of impairments, disabilites and handicaps”,che prevedeva tre nuovi fattori,non più menomazione,abilità ed handicap ma menomazione ,abilità e partecipazione al fine di porre maggiore attenzione alle capacità del soggetto e alle sue possibilità di coinvolgimento sociale. Nel 2001 ,invece,pubblicò il manuale ICF, “classificazione internazionale del funzionamento della disabilità e della salute”,al fine di definire un nuovo concetto di disabilità. Secondo l’ICF,la disabilità non è nient’altro che una condizione di salute derivata da un contesto sfavorevole,infatti pone fattore principale la qualità di vita delle persone affinchè si evidenzi come queste persone vivono con la loro condizione e cosa di possa fare,e cosa si possa migliorare per una vita serena e tranquilla. L’ICF associa qualsiasi forma di disturbo di salute al corpo,alla persona,alla società,non classifica semplicemente le condizioni di salute,vale a dire malattie,traumi,disordini,ma anche le sue conseguenze,riguarda la persona nella sua interezza. L’ICF è stato introdotto perché le diagnosi mediche da sole non bastano per indicare le attività che un soggetto può o non può fare ,inoltre,tale classificazione,è stata ideata per poter essere usata con tutte le persone di qualsiasi età,per descrivere la presenza o l’assenza di menomazioni nelle funzioni e strutture corporee attraverso un “linguaggio internazionale”. Proprio per questo motivo,l’ICF rappresenta uno strumento importanti per tutti gli operatori,in ogni campo,da quello sanitario a quello economico perché accettandolo si attesta il diritto delle persone con disabilità ad essere parte naturale della società. L’ICF utilizza una checklist,ovvero una lista di controllo, che si basa su quattro punti: il funzionamento,la disabilità,la presenza/assenza di menomazioni e i fattori contestuali. Il funzionamento e la disabilità indicano i fattori positivi e quelli negativi cioè ciò che una persona è in grado di fare e ciò che una persona ha difficoltà a fare,quindi contribuiscono sia a definire la disabilità sia ad individuare aspetti non problematici legati alla salute e alla personalità. La presenza/assenza di menomazioni e i fattori contestuali riguardano le funzioni,le strutture corporee e l’influenza positiva o negativa che l’ambiente esterno ha sulla persona. Entrambe indicano quei fattori ambientali che influenzano il funzionamento della disabilità,partendo dall’ambiente più vicino a quello più lontano,escludendo i fattori personali perché variano da soggetto a soggetto. L’ICF si occupa,dunque ,anche dell’ambente che circonda la persona disabile,delle barriere che esso deve affrontare,i disagi psicologici che subisce,dal momento che disabile è anche ciò che gli altri pensano di lui,degli sguardi di compassione,della pietà o ribrezzo con cui viene guardato. Al disabile,infatti,vengono associate molte etichette,il disabile è il malato, è il poveretto verso il quale si prova pietà,dispiacere,è colui che soffre ,che non è conformato alla società,è il diverso che è sfortunato a non essere come noi. Ma il disabile è semplicemente un soggetto come tutti gli altri, è un essere umano che piange, ride e prova emozioni,presenta disturbi fisici o psichici,maggiori difficoltà a svolgere determinate attività,un soggetto che spesso scopre il suo disagio proprio confrontandosi con i “normodotati”notando differenze che magari fino a quel momento non aveva notato. La cosa che spesso si dimentica è proprio il fatto che si,è vero che il disabile è il diverso ,ma tutti siamo diversi,”siamo unici esattamente come tutti gli altri”,ma non tutti siamo disabili. Il termine disabile comporta un soggetto portatore di qualche difficoltà,di qualche mancanza,di qualche diversità ma tutti siamo portatori i qualcosa di diverso dall’altro,diverse abilità,diverse caratteristiche ma non ci etichettiamo di certo come “portatori di occhi castani”o “inabili a cantare”(chiamatemi per nome,Gianni Scopellitti), allora perché utilizzare tale termine dispregiativo che non fa altro che alzare barriere e aumentare le difficoltà quando,invece,è necessario distruggerle? Perché è necessario etichettare tutto ciò che è diverso dall’essere “normale”? Anche se è la normalità stessa a non avere una definizione precisa?Cos’è,infatti,il normale? Ciò che è normale per me,può essere a-normale o non normale per un altro,allora perché si ha la necessità di collocare delle persone in determinate categorie? Perché il diverso fa paura,il diverso è colui che non è simile alla maggior parte delle persone che vivono intorno a lui,non è necessariamente il malato,il disabile ma è colui che si distingue per caratteristiche diverse dalle altre,è lo straniero,è colui con lingua,cultura,razza,costume diversi. Il diverso viene isolato,incute timore,ansie perché non si conosce e lo stesso può avvenire per una persona disabile che,prima di conoscerlo è “quello sulla sedia a rotelle,quello con la faccia storpia”,ma poi viene visto in lui una persona. Il diverso è lontano da noi e da quello che siamo,il diverso è spesso quello “strano” che non capiamo,quasi sempre perché non ci proviamo nemmeno,è colui verso il quale si sente la necessità di essere solidali perché si prova per lui pietà,compassione e a volte anche ribrezzo,vergogna per una sua menomazione. Ma noi stessi siamo diversi,non solo l’uni con gli altri,ma anche con noi stessi,non siamo più quelli di qualche anno precedente,cresciamo,cambiamo e con noi i nostri pensieri e i modi di fare,che possono renderci diversi da altri soggetti. Cambiano le nostre abilità e le nostre dis-abilità ma non veniamo etichettati come “disabile” nel fare qualcosa. Il termine diversabilità,infatti,mette in risalto oltre che ad una disabilità,anche le diverse abilità che un individuo possiede al fine di farle emergere e potenziare. Dunque è più corretto usare il termine “diversamente abile”perché,anche se contiene anch’esso delle imprecisioni, è meno dispregiativo e valuta la persona nella sua essenziale umanità. Tale termine,inoltre,si basa su una visione speranzosa che vede un “mondo futuro” libero da ogni stereotipo e pregiudizio,libero da ogni conformismo ed omologazione, abile finalmente a vedere la vita e capire l’altro.
PUNTO 2
È necessario aprire gli occhi,togliersi la benda e ricostruire una nuova cultura della disabilità,libera da ogni forma di categorizzazione. È proprio questo uno degli obettivi che A.M.Murdaca pone nel suo testo “complessità della persona e disabilità”,in cui è attenta non solo ad analizzare i temi del funzionamento,del comportamento o dell’assistenza del soggetto disabile ma si è concentrata soprattutto sul riconoscimento della persona in evoluzione. L’obiettivo primario è quello di valorizzare la persona nella sua interezza umana con il rispetto delle differenze e delle identità,valorizzare la persona per ciò che ha e non per quello che non possiede,”non si dovrebbe definire nessuno per sottrazione”,perché è di essere umani che si parla e non di oggetti,nessuno per nessun motivo,è inferiore a qualcun altro. È necessario valutare le noreme,le disposizioni che regolano la tutela ed i servizi a favore di soggetti in condizione di disagi,abbattere ogni forma di barriera ed usufruire di tutti quei materiali e quegli ausili che la tecnologia ci offre. Sono molteplici i casi di cui poter parlare: prima fra tutti quello di Andrea Ferrari,un ragazzo diversamente abile costretto a stare su una sedie a rotelle, ma che grazie alla domotica,una tecnologia capace di migliorare la vita dell’uomo attraverso attrezzature che permettono il controllo dell’intera casa da un unico punto attraverso interfacce quali telecomandi,tastiere,riconoscimento vocale,non ha rinunciato a vivere la sua autonomia. O il caso Pistorius,un’atleta paraolimpico che all’età di 10 mesi fu costretto all’amputazione di entrambi gli arti inferiori, ma che grazie alle tecnologie integrative non solo è riuscito a camminare,ma addirittura a correre e partecipare alle paraolimpiadi e alle olimpiadi. Felx food,queste le protesi utilizzate da Pistorius nella sua corsa,piedi flessili in fibra di carbonio a forma di C,che hanno permesso di abbattere le prime,di tante, barriere che la società ha imposto. A.M.Murdaca,così come l’ICF,dunque,sottolinea l’importanza di valutare il modo in cui l’ambiente esterno,la famiglia,la società,il contesto lavorativo possono influire sullo stato di salute del soggetto. Infatti,oltre la famiglia e la scuola,che dovrebbero migliorare di gran lunga lo stato psico-fisico del soggetto guardando in esso una persona come tutte le altre,l’ambiente esterno può essere sia una barriera che un facilitatore dal momento che la persona con disabilità o con handicap viene definita in base a due diversi tipi di valutazione: il sistema delle opinioni personali ed il sistema delle informazioni istituzionali e formali. Proprio per questo motivo l’obbiettivo primario che dovrebbe porsi la società è l’integrazione del soggetto disabile al fine di emanciparlo,e renderlo autonomo. Per integrazione si intende l’inserire una persona in un gruppoo in un ambiente in modo che ne diventi parte integrante,essa considera sia chi è da integrare sia il contesto che integra. È un processo continuo non un punto d’arrivo,è una continua ricerca di strategie,di soluzioni per preservare i diritti della persona disabile. È rendere qualcosa completo,non dare niente per scontato,è riflettere sul contesto,sulle leggi e le loro applicazioni. Integrazione è guardare alla globalità della persona,non si può scomporla e considerarla in parti separate ,è condivisione di valori etici che tengono conto del rapporto dignità-autonomia,identità e potenzialità personali,è accoglienza verso diverse identità ,non è un’astratta normalità ma è un valorizzare al meglio le caratteristiche individuali. È importante,quindi secondo A.M.Murdaca, promuovere un’integrazione sociale,scolastica e lavorativa che guardi la persona a 360°,che veda nel disabile un cittadino a pieno titolo perché ogni disabile,essendo una persona,ha la propria storia e bisogna cercare in lui indipendenza e autonomia perché la disabilità non è sempre identificabile come malattia. Bisogna riflettere su “cosa si deve ancora fare,quanto si può ancora fare nonostante quanto non si fa” al fine di dare voce ai disabile per creare ambienti attendibili e sostenibili,ambienti di adattamento che guardino più alla presenza del soggetto piuttosto che all’assenza delle sue funzioni,ambienti educativi nei quali anche gli educatori e gli insegnanti siano preparati ad una ricostruzione che si basa su quella che è la relazione educativa,che non è solo quella in ambito scolastico ma anche quella in ambito famigliare,occasionale,d’amicizia perché in ogni relazione non solo si da ma si riceve anche qualcosa in cambio,ogni esperienza positiva o negativa può insegnare qualcosa. <<Tutti possono insegnare e tutti possono imparare>> ciò che più conta è il rispetto reciproco,rispettare ed essere rispettati,ascoltare ed essere ascoltati,è importante dare all’altro la possibilità,la libertà e il tempo di essere,è importante non fermarsi alle apparenze,cercare di capire chi si ha di fronte,i suoi problemi,le sue difficoltà,dunque è importante creare un legame affettivo che permette all’altro di fidarsi,e vedere in quella “figura”(educatore,insegnante,genitore),una persona con cui poter parlare liberamente. È importante che vi sia uno scambio alla pari,senza nessuna forma di distinzione o di superiorità,ne tra alunno-insegnante,ad esempio,ne tra i diversi alunni. È importante,dunque,che ogni docente,educatore,genitore conduca il soggetto a cambiamenti positivi,a nuove forme di pensiero,o visione del mondo,è importante far emergere sempre il meglio delle persone al fine di ricostruire finalmente una nuova visione della disabilità e non.
PUNTO 3
Bellezza,salute e giovinezza: questa la triade che accompagna e da sempre affligge la società. Caratteristiche necessarie,doverose,per essere parte integrante di essa. La bellezza,l’essere perfetta,l’essere femminile è un obbligo che ogni donna,di ogni secolo,di ogni età,di ogni epoca ha il dovere di coltivare. Ogni donna sente il bisogno di soddisfare i suoi bisogni,se così vogliamo chiamare qualcosa che la società ha “suggerito”,quelli di essere bella e perfetta,prima per gli altri e poi per se stessa. Non più colei che è responsabile della cura e della salute della propria famiglia,colei che si prende cura del “focolare domestico”,ma oggi la donna ha conquistato un posto nella società con i propri pro e i propri contro. Sono altri,oggi,gli ideali primari alla quale una donna ambisce,innanzitutto essere bella,giovane,essere perfetta e femminile sempre. Queste le tematiche che ritroviamo nel “il gentil sesso debole” di Remaury in cui si parla di corpo trasfigurato:un corpo che ascende faticosamente la scala della perfezione grazie ai progressi della scienza,un corpo esatto:un corpo che si avvicina alla perfezione non solo grazie alla scienza ma anche grazie alle altre discipline,ed infine si parla di corpo liberato ovvero quel corpo”finalmente”libero. Libero da qualsiasi difetto,libero dalla malattia,dal peso e dal tempo. È da questo corpo libero,da questa liberazione che nasce la “terza donna” di Lipovetsky,la donna sana,magra e giovane,la donna che controlla il suo corpo al fine di avvicinarsi a quel corpo realizzato il più possibile. Tante piccole macchine omologate ad un’unica immagine: taglia 40,fisico asciutto,magrissimo,viso perfetto,portando ad effetti disastrosi:primo fra tutti ad un corpo de-femminilizzato,privo di ogni forma femminile. Dal momento che magrezza non è sinonimo,non è possibile associare una malattia come l’anoressia o la bulimia,ad un modello estetico di perfezione. Inoltre con l’avvento della tecnologia estetica e il trascorrere del tempo ha portato a varcare sempre di più la soglia del limite:protesi estetiche nate come cura a malformazioni di salute sono diventate come matite e gomma nelle mani di bambini che possono cancellare e rifare il disegno ogni volta che c’è qualcosa di sbagliato. Abbiamo,infine,la proposta di una donna completamente diversa dalle due proposte fin ora. In “madri mostri e macchine” Rosi Braidotti propone una donna aperta alle novità,trasgressiva,tecnologica,una donna che è tecnologica anche nella riproduzione. Il corpo,infatti,per Braidotti,è strettamente legato alle tecnologie,è un incrocio tra corporeo e tecnologico ed è per questo che sono importanti quei mutamenti bio-tecnologici che modificano tutte le pratiche,anche quelle più “quotidiane”. Parla,inoltre,dell’asimmetria tra i sessi,della differenza tra l’uomo e la donna,del loro diverso modo di pensare,agire e vedere le cose come per esempio la maternità che,se per la donna è qualcosa di affascinante e meraviglioso,per l’uomo è qualcosa di orribile,di “mostruoso”,due corpi in un unico corpo. Parla della diversità come l’unico fattore che accomuna tutta l’umanità,un’umanità “da sempre mostruosa,deforme” rispetto al “grado zero della mostruosità” ,ovvero della normalità. Bellezza e bruttezza sembrerebbero due concetti in antitesi: al primo vengono associati virtù interiori come l’onestà,la bontà,la gentilezza, al secondo,invece,il concetto di mostro,caratteristiche che magari sono del tutto inesistenti in quel soggetto,basti pensare alla bestia de “la bella e la bestia”,mostro fuori,buono dentro. La bellezza non è nel naso perfetto,nelle labbra gonfie,nella taglia 40,la bellezza sta nella personalità di ogni individuo,nelle sue idee,nei suoi ideali e nei suoi valori. Purtroppo viviamo in un’epoca in cui l’occhio si ferma all’apparenza e non riesce a guardare oltre,la bellezza non è più un sentimento disinteressato,ma uno standard,un modello con dei canoni ben precisi,e chi non li rispetta viene catapultato in una delle molteplici categorie esistenti.